serie tv

You, la serie di Netflix (o no?)

C’era per caso bisogno di una serie in cui Penn Bagdley, al secolo Dan Humprey e in arte Gossip girl, andasse in giro a stalkerare bionde? Sì, ce n’era bisogno. E Lifetime non si è persa l’occasione ed ha deciso di produrre proprio You, tratto da un libro di Caroline Kepnes, serie tv che wikipedia si azzarda a definire addirittura un thriller psicologico. Mi sembrano parole forti, sinceramente, ma chi sono io per contraddire il dottor Wikipedia? Nessuno mai.

La storia è semplice: Joe Goldberg è un libraio (la libreria si suppone sia sua) che si innamora a prima vista di una sua cliente. Forse la cliente più anonima della storia dei clienti, ma che dire. Il suo amore folle improvviso si risolve in uno stalking mattissimo nei confronti della povera Beck, che in realtà porella si chiama Guinevere e vuole tanto, tanto fare la scrittrice.

Senza spoilerare troppissimo, mi azzarderò solo a dire che il buon Joe fa cose niente affatto legali per assicurarsi l’amore di Beck e, tra le altre cose, fa fare una fine un po’ bizzarra anche alla sempre stupenda Shay Mitchell di Pretty Little Liars che qua interpreta una ragazza diciamo ambigua dal sempre bel nome Peach.

Scritto male, recitato malino, You è stato raccattato da Netflix che ci ha anche messo il suo marchio Netflix Originals dall’alto di non si è capito bene cosa visto che non è stato lui a produrlo. Ma a scriverlo è stato Greg Berlanti e sappiamo tutti quando ognuno di noi debba qualcosa al buon Greg (DAWSON’S CREEK!)

Dategli una chance, anche solo per inveirgli contro.


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di Francesca Giorgetti

31 anni, ultimamente romana ma pratese per sempre. Appassionata a livelli patologici di serie tv e Maria De Filippi. Lavora in tv e scrive di serie: puoi seguirla sulla sua pagina facebook Io veramente guarda



Elite

“Buonasera a tutti, shpagnoli e non!”

Scusate, ma su Netflix è uscita una nuova serie spagnola e lo sanno tutti che l’unica cosa da dire quando c’è di mezzo gli spagnoli è questa.

La sobria Elite racconta di un fantomatico liceo favoloso per ricchi in cui grazie a tre borse di studio arrivano tre poveri di cui una musulmana aumentando il coefficiente disagio di +100.

Già dal primo frame, e quindi non vi spoilero niente lo giuro, si capisce che c’è stato un omicidio e che quasi tutti gli studenti sono sospettati e quindi, manco a dirlo, la serie è fitta così di flashback.

Flashback in cui la maggior parte delle volte i nostri protagonisti sono nudi/impegnati in menage a trois/ubriachi/strafatti. Adorabili.

Quello che però più salta all’occhio è che tutto ‘sto benessere sbandierato non mi si rappresenta nei vestiti AGGHIACCIANTI di tutto il cast. Vorrei fare un articolo a parte sulle gonne e i vestiti di ‘ste disgraziate che nonostante i big money vanno a giro come in un cazzo di circo. SIETE SPAGNOLE, ANDATE DA ZARA, tamarre che non siete altro. In tutto ciò, di chi sarà stato l’assassino un po’ te ne freghi ma se amate le cose trash, senza senso, recitate male e scritte peggio, beh ragazzi Elite è la serie per voi.

Ah, alcuni del cast hanno ovviamente partecipato a La Casa di Carta perché comunque gli attori ragazzini spagnoli quelli sono, e quindi se vi va trovate pure un paio di facce amiche.

Però ecco, non è la serie dell’anno. No.


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Insatiable: polemiche a caso e tanto trash

Siccome che gli americani sui pregiudizi ci sguazzano, qualche settimana fa era uscita tutta una mezza polemica sulla nuova serie di Netflix, Insatiable, dove la protagonista era grassa e poi è diventata magra e si vuole vendicare della gente infame che la bullizzava.

L’astio a prescindere per la trama veniva dal fatto che il messaggio poteva sembrare un po’ negativo, tipo che se ti infamano per anni e diventi cattiva NON VA BENE, e che l’attrice protagonista è, pensa un po’, una bona incredibile con un trucco fatto apposta per farla sembrare grassa.

Ora. Entrambe le polemiche mi sembrano un po’ sceme. Specie perché basta vedere qualche episodio per capire che le premesse della serie non sono sviluppate mai nella vita.

Uno si aspetta che via via la protagonista si vendichi con ogni orrendo compagno di scuola, e invece no. Incontra uno che oltre a fare l’avvocato nella vita aspira a diventare un coach per concorsi di bellezza ed è sposato con Alyssa Milano (Phoebe IO NON TI HO MAI DIMENTICATO) e da lì, bom!, scene a caso di lei che si innamora di lui, lei che vuole sabotare il matrimonio, lei che litiga con la madre cattiva, lei che vuole uccidere uno ma non lo fa.

Insomma, la serie prende una piega totalmente a caso rispetto al pilot. Il tutto con dei colori sgargiantissimi ed un’ambientazione che ricorda il mai abbastanza compianto Good Christian Bitches. Texas e donne stupide dappertutto, insomma.

Se volete sbugiardare le polemiche sterili americane, vedetevi pure un paio di puntate. Altrimenti diciamo che è una serie abbastanza superflua ecco, sì.


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OITNB: c'è la sesta stagione, baby!

Sì lo so, ormai siamo alla sesta stagione di Orange is the new black (OITNB) e in teoria anche un po’ che ci frega delle magiche avventure in quel di Litchfield. Però oh la quinta stagione era finita con un cliff della madonna e allora che fai, non te li vedi IN TRE GIORNI tutti e 13 gli episodi? Sì, lo fai. O almeno, io l’ho fatto.

Come sempre, quei mattissimi sceneggiatori sanno come rimescolare le carte in tavola e allora sbam, è un attimo che ti sparpagliano le nostre detenute in diversi blocchi del carcere e ti introducono mega cattivoni freschi di stampa.

Stavolta più che mai, vige la legge del “mors tua vita mea”.

Ex amichette che quasi si accoltellano (ma senza coltelli, con arnesi ben più rudimentali perché siamo pur sempre in prigione) per il terrore di una testimonianza a loro sfavore dopo il riot; ex protette che non lo sono più ed ex amanti che ehi, incredibilmente lo rimangono.

Perché tra tutte, assurdo a dirsi, Alex e Piper alla fine dei guai sono quelle più coerenti a loro stesse. Si amano da 6 anni, con qualche intoppo nel mezzo, certo, ma chi non li ha.

Intorno a loro sorelle infami, vecchiette spietate, guardie vendute, nuove dipendenze, innocenti alla sbarra e insomma, la solita fauna che si trova nella ridente prigione che tanto amiamo da anni.

Stavolta l’espediente della guerra tra blocchi (ovvero kaki contro blu contro rosa, ovvero cattive contro più cattive contro un po’ meno cattive) funziona anche se ridondante.

Devo ammettere che coi primi 4 episodi ho avuto molta paura, specie col primo che un po’ di dubbi sulla qualità della droga che gira nelle stanze di Netflix me li ha fatti venire ma dal quinto episodio in poi, giuro, tutto migliora nettamente.

Per la settima stagione ho un po’ timore: quante dinamiche ancora potranno raccontare? Infinite? Io non credo.

Però ehi, stiamo pur sempre parlando di Jenji Kohan, un pochetto di fiducia se la merita!


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Mad Men: quando la pubblicità brucia l'anima

La AMC, si sa, manda da sempre in onda cose un po’ lentine. Tipo Breaking Bad per intendersi. Che sì è bellissima favolosa e gli vogliamo tutti bene, ma EHI quanta lentezza nella prima stagione? Tanta.

Ecco, capita la stessa cosa con Mad Men, serie del 2007 che hai già fatto storia, almeno per le prime 3-4 puntate. Poi però è tutto talmente bello, talmente curato che checcifrega della lentezza? NIENTE AMICI.

La serie parla di un’agenzia pubblicitaria di New York, la Sterling – Cooper, e della gggente che ci lavora a partire dall’inizio degli anni ’60. La trovate su Netflix.

Tra gli aspetti da non sottovalutare per la botta di interesse che provocano tutte le puntate in cui tra le altre cose viene spiegata l’origine di alcune vere campagne pubblicitarie americane di quegli anni (Lucky Strike e Kodak giusto per dirne un paio), c’è indubbiamente il personaggio di Don Draper interpretato diosolosaquantobene da un Jon Hamm perfetto ed in stato di grazia. Padre di famiglia dal passato misterioso, traditore seriale, mezzo genio della pubblicità e, cosa da non sottovalutare mai, bono di Dio.

L’agenzia Sterling Cooper attraversa così tutti gli anni ’60 tra fusioni, dipendenti arrivisti, segretarie bellissime, clienti bizzarri e storyline personali che a modo loro raccontano un assurdo quanto pregno di eventi periodo storico americano.

Mad Men, tra l’altro, è stata la primissima serie di un canale cable, aka DA RICCHI, a vincere un Emmy (in totale però, attenzione, ben 16) per miglior serie tv drammatica. Mica cazzi.

Se avete voglia di una maratona incredibile di sette stagioni di gente vestita benissimo e che fuma tantissimo incurante della morte che probabilmente sopraggiungerà per ognuno di loro, vedetevi il pilot e poi non uscite mai più di casa. Ne varrà la pena.

Fun fact: vista la quantità incredibile di sigarette che tutto il cast era costretto a fumare in OGNI SCENA, la produzione aveva fatto fare sigarette speciali al borotalco. Dev’essere stato un set facilissimo.


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Il miracolo, la serie scritta da Niccolò Ammaniti

Non ci crederete ma il nostro magico e soprattutto tragico Paese è riuscito a partorire una miniserie della madonna, Il Miracolo. Nello specifico, l’ha fatto Sky.

Otto puntate ideate dirette e scritte da Niccolò Ammaniti. O da Stefano Accorsi, chissà.

La trama è semplice: nel covo di un boss della ‘ndrangheta in un paesino calabro la polizia trova la statua di una Madonna che piange sangue. Nel senso che proprio non smette mai di piangere sangue, forever and ever.

Ovviamente la mattissima statuetta viene portata al Presidente del Consiglio, un immenso, incredibile, megafregno GUIDO CAPRINO, che ogni puntata che passa ti fa chiedere cose tipo “COME FA AD ESSERE COSI’ BONO?”, “MA STA VOCE?” Così, in loop ogni volta che appare sullo schermo con le sue camicine bianche un po’ strettine.

Le reazioni di ogni personaggio alla consapevolezza che un Miracolo, effettivamente, è possibile, diventano quindi una scusa per raccontare la totale mancanza di punti fermi in un periodo assurdo e difficile dell’Italia a tanto così dall’uscita dall’Euro. Ci sono i preti, i politici, i matti, i mafiosi, c’è tutto, ognuno con la sua piccola storia personale racconta un pezzetto di noi.

Il grande pregio di questa serie, oltre al fatto che non ci sono toscani (cit.), è che per tutte le puntate è chiaro che sia stata scritta da uno che, incredibile, di lavoro fa lo scrittore. E quindi sì, è lenta, spesso arranca e spesso si perde in sottotrame che beh Ammaniti prossima volta pensaci un po’ meglio. Però, lo giuro, è tutto molto bello.

Menzione speciale per il best personaggio ever ovvero Sole Pietromarchi, la moglie del premier fuori di testa ed adorabile interpretata in maniera incredibile e perfetta da Elena Lietti. Poi vabbè, c’è anche Alba Rohrwacher che ammazza tutto col suo modo di parlare alla Alba Rohrwacher ma ehi, non si può avere tutto.

In tutto ciò, come dice la mia amichetta Ninni: “Il vero Miracolo è Guido Caprino”.

Raramente sono stata così d’accordo su qualcosa. Ciao Guido, se ci leggi, chiamaci.


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La casa di carta, storia di un entusiasmo immotivato

A meno che non viviate in un piccolo bunker, avrete sicuramente visto o sentito parlare de LA CASA DE PAPEL, la serie shpagnola che ultimamente ha fatto il botto su Netflix che l’ha presa da Antena 3, aka una sorta di Italia1 spagnola, ne ha modificato la durata degli episodi e l’ha divisa in due stagioni come è parso a lei. Perché comunque Netflix c’ha i poteri.

La storia è sempliciona, a tratti scopiazzata da quel bel film che è Inside Man di Spike Lee: un gruppo di disperati, capeggiato da un favoloso e irreprensibile El Professor, decide di fare una rapina alla zecca di stato spagnola.

Non ruberanno niente ma stamperanno direttamente i soldi. GENIO.

Per non farsi sgamare vestiranno gli ostaggi come loro così da confondere i furbissimi poliziotti. Nessuno sa il nome dell’altro e per chiamarsi usano tra loro i nomi di città.

Tokyo (la più bona della storia della Spagna), Berlin (cattivissimo), Nairobi (delicatissima), eccetera eccetera.

Tutto molto bello se non fosse che i buchi di sceneggiatura fanno piangere lacrime di sangue da quanto sono palesi, tipo che già al minuto 7 è tutto un “seh ciao”.

Nonostante questo io giuro non so come sia possibile ma non si riesce a smettere di guardarlo. Ti vedi la prima puntata e LO SAI che ti stanno prendendo per il culo, che lo story editor non era compreso nel budget della serie, però vai avanti fino all’ultima puntata come se fossi in botta.

Scene inverosimili oltre, ma davvero oltre, la sospensione dell’incredulità, battute orrende ed assurde, effetti speciali che mmmh insomma, storyline buttate a cazzo, ma tu te le vedi tutte 'ste puntate, e ora che fanno la terza stagione, tu la aspetti. Perché? NON LO SO. Forse perché parlano spagnolo, e lo sanno sempre tutti che “la vida es un carnaval”.


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Revenge: gli Hamptons, i ricchi, i complotti

Qualche anno fa è andata in onda una serie BELLISSIMA talmente assurda che faceva il giro e diventava plausibile.

La protagonista di Revenge è Emily Van Camp, aka Amy di Everwood, aka Amanda Clarke, aka Emily Thorne. La storia è semplice: un uomo buono incastrato da gente cattiva è fatto passare per terrorista e la figlia che con un'altra identità cerca, riuscendoci, di rovinare la vita di tutti i coinvolti nel gomblottohhh per vendicare l'amato padre.

È tutto bellissimo, almeno fino alla terza stagione dove veramente uno alza le mani e dice Vabbè dai però basta dateci pace. I ricchi qua sono ricchissimi, i cattivi cattivissimi e i buoni, ehi, buonissimi. Uno dei più riusciti è senz'altro Nolan Ross, l'amico genio nerd miliardario con degli outfit incredibili.

Subito dopo c'è lei, Victoria Grayson. L'infame per eccellenza, una delle donne più orrende mai state scritte, quindi ovviamente splendida.

Se le prime puntate della prima stagione risultano un po' ripetitive con dinamiche sempre uguali, da metà è tutto un pem pem pem APPLAUSI SIORI E SIORE!


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The Marvelous Mrs. Maisel

Amy Sherman Palladino is back, ladies and gentlemen.

Amazon Prime le ha dato uno show tutto suo ed io non potrei esserne più contentona.

Fine anni '50, una perfetta ragazza ebrea sposa un impiegato con velleità da stand up comedian incapace a far ridere mentre lei è una cabarettista nata ma ancora non lo sa.

 

C’è il femminismo quello simpatico, non quello alla cazzo di cane di She’s gotta have it; ci sono gli attori feticcio della Palladino, ci sono i costumi perfetti e coloratissimi di quegli anni lì, ci sono gli ebrei (gotta love gli ebrei), c’è una protagonista adorabile ma che ti sta anche un po’ sul cazzo e poi no. Ma soprattutto, ci sono I DIALOGHI DELLA PALLADINO. Quelli tutti veloci velocissimi che se starnutisci ti perdi una battuta perfetta e devi tornare indietro. C’è pure l’assurdo mondo dello stand up comedy, tuttora un po’ maschilista figuriamoci 50 anni fa in America.

La serie ha già vinto due Golden Globe (miglior attrice e miglior comedy-musical, mica cazzi)

Su Prime video fanno poi una cosa molto carina che alla gente appassionata di musica (non me) è molto utile. In ogni scena, sulla sinistra se vuoi c’è titolo ed artista della canzone che stanno cantando o che fa da sottofondo. Insomma ti mettono in diretta la colonna sonora. Carinerie gradite insomma.

Manco a dirlo, il pilot della fantastica signora Maisel è una delle produzioni più viste di Amazon che, datemi retta, produce dei gioiellini incredibili e spesso bistrattati da tutti.

Se con lo stile della Palladino ci andate a nozze amerete TUTTO TUTTO TUTTO. E vorrete assolutamente i vestitini da casalinga ebrea, perché sono bellissimi.


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The end of the f***ing world

Ci sono serie tv che inizi e dici mh non lo so, anche un po’ che palle vabbè andiamo avanti vediamo.

Ti giri ed è subito sera, hai visto tutti ed otto gli episodi in una giornata e sei basito. Questo è quello che succede con The end of the fucking world. Se lo inizi, è molto probabile che dopo 3 ore tu lo finisca. Aiuta molto, moltissimo il fatto che le puntate durino poco (20 minuti) e che ogni episodio sia la diretta continuazione del precedente, come se fosse un film con molti intervalli, diciamo, ma la storia fa la sua bella parte.

In breve: un diciassettenne che crede di essere psicopatico e che ha l’abitudine fin da bambino di uccidere gli animali per noia, decide che il prossimo passo sarà uccidere una persona. La fortunella prescelta è una compagna di classe mattissima e annoiatissima dalla sua vita. I due però poi scappano alla ricerca del babbo di lei e da lì casini casini e ancora enormi casini. Il tutto con un mood british, perché la serie pure se la trovate su Netflix in realtà è di Channel 4, due attori splendidi ed un ritmo incredibile dato soprattutto dal fatto che il tutto è la trasposizione di una graphic novel.

Dai costumi alla fotografia, dalla recitazione alla sceneggiatura, tutto è fatto appositamente per farti incollare al divano e non staccartici finché non è finito. Peccato che sia andato così bene che hanno deciso di farne una seconda stagione, il solito perfetto espediente per ROVINARE TUTTO PER SEMPRE.

Speriamo in bene amici, ma il fotogramma dell’ultima puntata sarà una roba difficile da battere in quanto a bellezza.


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Godless: il western ma prodotto da Soderbergh

Mentre nel mondo si consumano noiosissime battaglie su cosa sia femminista o meno, tra campagne pubblicitarie fraintese ed altre cose poco interessanti, è uscita una serie molto bella che si chiama Godless, prodotta dal buon Soderbergh per Netflix.

L’ambientazione è di un marrone che più marrone non si può, perché siamo nel polveroso 1884, nel caro vecchio west. I protagonisti sono alcuni degli attori feticcio di Sorkin, che non c’entra niente ma che è sempre bene nominare invano in quanto genio della televisione. Ci sono infatti Jeff Daniels e Sam Waterson di The Newsroom e Merritt Wever di Studio 60, insieme alla beneamata Michelle Dockery di Dowton Abbey.

Tutte queste persone si ritrovano insieme nella ridente cittadina di Labelle, in New Mexico, abitata principalmente da donne molto, molto cazzute che si giostrano un fucile in mano con scioltezza. Tempo fa un’inondazione ha sterminato praticamente tutti gli uomini del paese e ora ci sono loro a tentare di sopravvivere nel clima molto poco disteso del vecchio west.

La lentezza del pilot è a tratti snervante ma il tutto è talmente pieno di poesia e delicatezza che una chance gli va data, anche solo per vedere Jeff Daniels nel ruolo del mega cattivo sterminatore di bambini e che al minuto 7 si fa tagliare un braccio a mani nude perché comunque lui può.

L’avvertimento infatti è d’obbligo: ci sono scene davvero crude, davvero trucide, e l’ambientazione western fa sì che poco di originale possa succedere. Sparatorie, cavalli, donne con vestiti splendidi e lunghissimi, saloon, cappelli e pistole.

Il solito, insomma ma con un gruppo di cazzutissime donne astiose e, loro sì, inconsapevolmente femministe.


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Suburra - Gomorra vorrei ma non posso

Dopo il film, ad alcuni è parso giusto farci la serie, sempre su Netflix.

Dio grazie, Borghi è sempre presente e sollazza la vista di tutte noi, e questo ci fa molto piacere. Il resto, insomma. La storia è sempre quella, Roma è gestita da gente non particolarmente cortese, i preti vanno a puttane e si fanno botte di bamba, Ostia se la vogliono accaparrare in centosei. Il solito insomma.

Stavolta però c’è un personaggio che spicca fra tutti, in assoluto la più bella, la mia preferita: Livia. La sorella di Aureliano/Borghi che per descriverla userei un sempre attuale: DELICATISSIMA.

I suoi outfit sono vita, i suoi orecchini pure ed è assolutamente perfetta nell’interpretare la nuova CAPA DEL MONDO della parte losca di Ostia. Capelli lunghi con coda di cavallo, accento molto marcato, gonne di dubbio gusto, giubbotti con colli di pelliccia, stivaloni. Già idola delle masse, è il perfetto contraltare della Gerini che qui è proprio una signora coi suoi vestiti eleganti mentre organizza festini con orge e acidi, adorabile.

Se per tutta la serie aleggia un “già visto, già capito, prevedibile pure questa scena, andiamo avanti”, ogni episodio ti fa comunque venir voglia di, appunto, andare avanti, pure per vedere se era vero che avevi già visto e già capito. (Spoiler: Sì, avevi ragione tu. Su tutto.)

Un mio collega a cui voglio molto bene ha dato di tutto ciò la definizione PERFETTA: “Suburra è un po’ Gomorra con la troupe di Don Matteo”.

Vero, verissimo.


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Disjointed: sono tornate le serie tv che non fanno ridere

Kathy Bates io davvero non so cosa ti sia passato per la mente quando il tuo agente ti ha passato la sceneggiatura del pilot di questa cosa.

Manco a dire che c’hai bisogno di lavorare perché insomma eri in American Horror Story le tue cose carine le fai. E invece no, sputtaniamoci alla tua età con una sitcom che pare uscita dagli anni BOH con le risate finte (ma non plausibili come quelle di 2 Broke Girls) e su un tema che mi già annoia al sol pensiero.

Kathy, che a regola ha un mutuo decennale a cui non hanno accettato la surroga, è quindi finita ad interpretare la proprietaria di un negozio di marijuana e combatte da un sacco per farla legalizzare insieme a suo figlio (nero). Insieme a loro ci sono i commessi ovviamente strafatti dalla mattina alla sera. Come lei, che però ha una certa e si veste con dei cenci improponibili che non sto neanche a raccontarvi.

La cosa più tragica è che la serie è di Chuck Lorre, quello che qualche anno fa si era inventato quell’adorabile gioiello che era (ora non lo è più, intendiamoci) The Big Bang Theory.

Kathy sei ancora in tempo per fuggire, ho un amico che sta cambiando banca magari te lo presento.


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Ozark: Jason Bateman sposami

Ne è passato di tempo da Arrested Development, la cosa più bella mai andata in onda nell’Universo Mondo. Adesso Jason Bateman è ancora più favoloso di prima e ha deciso di strafare: in Ozark fa tutto lui e pensa, lo fa pure bene.

In parecchi parlando della nuova serie Netflix hanno buttato in mezzo Breaking Bad perché sì ok personaggio buono che si deve reinventare perché sennò sono cazzi, ma per ambientazione, fotografia e regia tutto in Ozark urla più che altro Bloodline (sempre di Netflix), se proprio vogliamo trovargli un parente.

Se invece ce ne sciacquiamo e ce lo godiamo per quel che è, i 10 episodi sono, oltre che belli e scritti ed interpretati splendidamente, pure molto lenti, ma quella lentezza che fa bene nel 2017 dove "eeeh 30 minuti e già ho capito tutto sì chiaro ok che mi frega delle puntate dopo".

Insomma la lentezza delle cose che un po’ ci mettono ad entrare nel vivo ma ehi, quando lo fanno non ce n’è per nessuno.

Se siete orfani di quel tipo di narrazione un po’ per grandi, quella che devi seguire e che non puoi star lì a guardare twitter nel frattempo, ecco, Ozark diventa una cosa molto ma molto bellissima. E Jason pure come regista spacca MA IO NON AVEVO DUBBI JASON TI RICORDI DI ME IO TI VOLEVO SPOSARE GIA’ ANNI FA CIAO RINTRACCIAMI.


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Gipsy: Naomi Watts psicologa molto poco professionale

Yup, Netflix ne ha sfornata un’altra: Gipsy.

Protagonista la seconda australiana più favolosa del cinema, la dottoressa Naomi Watts (sorry, con Nicole Kidman non c’è gara) nei panni di una psicologa bona che non gliela fa a mantenere il distacco coi suoi pazienti.

Ne ha uno che si è appena lasciato sta malissimo è depresso? Ma perché non diventare amichetta della sua ex che lo sta facendo disperare e magari instaurare una relazione un po’ torbida e tendente al lesbo già dal primo frame? Che bella idea!

La Watts ha una vita apparentemente normale, una casa favolosa in un quartiere altrettanto, un bel lavoro, un marito belloccio (Billy Crudup), una bellissima figlia dal nome Dolly (potenzialmente affetta da disforia di genere, tema che mi auguro tratteranno in maniera carina, altrimenti NON LE SCRIVETE LE COSE) e un fisico di Cristo che sfoggia con nonchalance nei suoi completini. Però tutto ciò non le abbasta, e quindi si infila nelle vite dei suoi strani pazienti per uno scopo poco comprensibile.

Il pilot è un MAH continuo, non è brutto ma manco bello, i dialoghi non fanno schifo ma non sono interessanti, i personaggi uuuhh misteriosi non lo sono manco per niente ed è tutto un po’ gratuito, lento ed inneggiante allo sticazzi.

Insomma, si dovesse giudicare solo del pilot sarebbe un big no no.

 


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Glow: scaldamuscoli here we come!

Dopo Orange is the new black, Girls, Big Little Lies ed il compiantissimo Pretty Little Liars (spero che abbiate tutti pianto le vostre lacrime per il finale altrimenti vergognatevi), DIO GRAZIE sui nostri schermi è apparsa un’altra serie con un cast quasi totalmente femminile.

We’ve got the power, bitches!

Glow è ambietato negli anni ’80, parla di un gruppo di attrici mezze fallite che si trovano a lavorare per una serie tv delicatissima: Glorious Women Of Wrestling. Donne che fanno wrestling, appunto. E per farlo sono in calzamaglia, scaldamuscoli, costumini fucsia e con in testa quelle terribili fasce per capelli.

Protagonista quasi assoluta è Allison Brie, che i più nerd spero ricorderanno per quel capolavoro bistrattato di Community. Di strada la dottoressa ne ha fatta, ma più che altro ha perso kg di cui almeno 6 nelle tette. You go girl!

La prima scena del pilot è già una delle cose più belle scritte in questa stagione e, da sola, vale la visione della puntata.

Se però non vi bastasse, sappiate che ci sono diversi altri motivi, primo fra tutti i costumi, ovviamente. Sono tutte delle piccole Jennifer Beals in Flashdance ed è un attimo che quegli outfit improbabili tornano di moda quindi stiamo tutti molto, molto attenti.

Per una botta di femminismo e per una televisione migliore, recuperatene.

La trovate su Netflix dal 23 giugno ed è tutto un sacco colorato!

 


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Girlboss: una storia vera di gente povera che diventa ricca.

Sophia Amoruso è una che in generale ne sa, o perlomeno ne ha saputo.

Nel 2014 è uscita la sua autobiografia Girlboss e da Netflix hanno chiamato Charlize Theron e le hanno detto: “ciao sei bellissima non è che ti va di produrre sta serie?”.

E così è uscita, appunto, #Girlboss.

La storia (vera ma un sacco romanzata) è di una ventitreenne completamente pazza, Sophia Amoruso, un po’ maniaca depressiva, un po’ cleptomane e a tratti bipolare che per sbarcare il lunario decide di iniziare a vendere cose vintage su Ebay (che ai tempi, nel 2007, era nel suo periodo più florido) e dal suo monolocale passa ad avere un’azienda tutta sua.

E Noi No.

L’ambientazione a San Francisco e la fotografia molto, molto smarmellata danno quel tocco un po’ kitsch ed ingiustificatamente anni ’70 a tutta la serie e si è sempre in bilico tra l’odiare follemente e l’amare abbastanza la protagonista interpretata da Britt Robertson, per la prima volta in versione castana e ancora più bona del solito.

Varrebbe la pena di vederla anche solo per la puntata quattro in cui c’è una citazione ad una certa scena di una certa puntata di The OC che è veramente da applausi.

Per il resto, venticinque minuti abbastanza trascurabili con qualche guizzo qua e là piuttosto divertente. In generale, però, “anche meno bastava” risuona potente ad ogni puntata, dove vogliono per forza farci ridere, per forza farci empatizzare e per forza lo sanno tutti che non si fa nemmeno l’aceto.


IO VERAMENTE LA FAVOLOSITA'

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di Francesca Giorgetti

29 anni, ultimamente romana ma pratese per sempre. Appassionata a livelli patologici di serie tv e Maria De Filippi. Lavora in tv e scrive di serie anche su Io Veramente Guarda.

American gods. Di tamarreide e trip sotto acido.

Questa cosa di adattare i romanzi e farcene delle serie sta un po’ sfuggendo di mano ai producer americani. Once again, hanno preso un libro ed ecco la nuova serie tamarra del mese: American Gods.

Stavolta ci sono di mezzo nientedimeno che gli dei, GLI DEI. Quelli delle mitologie di tutto il mondo che sono stati importati in America da tutti gli immigratih col wifi e che lo sceneggiatore cerca di spiegarci con un antefatto INCREDIBILE, AMICI.

Il protagonista della serie è Shadow Moon, un ex galeotto che viene fatto uscire di galera due giorni prima del previsto perché la moglie è morta in un incidente stradale mentre faceva “la respirazione bocca cazzo” (Cit.) all’amico del marito.

Nel volo verso il funerale, Shadow conosce un uomo che somiglia tanto, ma tantissimo, all’Al Pacino de L’avvocato del Diavolo. Di nome dice di fare Wednesday ed ha un sacco di poteri. Ovviamente è mega affascinante, pensa. Da lì, la vita di Shadow prende una piega quantomeno peculiare, tra leprechaun astiosi, ragazzetti nerd con drughi a seguito, omicidi, mufloni, trip e tante altre cose carine.

Durante tutto il pilot il pensiero costante è “maccheccavolostovedendo?” e ad ogni scena il basimento è sempre più potente. Per quel che mi riguarda, alla fine l’esclamazione è stata “vabbè APPLAUSI”.

Perché comunque il tamarro è sempre un bel vedere. 


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The Handmaid's Tale: distopia e femminismo

C’era una volta, nel 1985, un romanzo dal titolo “Il racconto dell’ancella” di Margaret Atwood.

Qualcuno deve averlo letto e pensato “oh, non è nemmeno un po’ ansioso, facciamocene una serie tv”. E fu così che ad Hulu hanno deciso di produrre 10 episodi da 42 minuti.

Il concept è semplice ed inquietante: il mondo come lo conosciamo oggi non esiste più, esiste però una società che si è resa conto che le donne fertili sono pochissime. Perché allora non governare il tutto con un regime maschilista, estremista, cattivissimo, e schiavizzare le donne in grado di avere ancora bambini mettendole al servizio dei potenti in un mondo regolato da leggi tutte nuove e in cui le donne non contano più una mazza? MA CHE BELLA IDEA.

Il pilot è esteticamente splendido, i costumi sono perfetti nel rappresentare tutto il disagio che le ancelle sono costrette a vivere, tra stupri, violenze e lavaggi del cervello: indossano tuniche lunghissime rosse e cappelli che ricordano quelli delle suore, bianchi e coi paraocchi.

Tra tutte le ancelline, oltre ad una Rory Gilmore cresciuta, spicca la povera Offred, una FAVOLOSA Elisabeth Moss che sta zitta e buona solo per tentare di uscire da questo mondo orribile e recuperare sua figlia, rapita al primo frame del pilot. Peccato che ognuna di loro abbia un Eye, ovvero una spia, che ha il compito di controllare ogni minimo comportamento e denunciare eventuali stranezze.

Se ve la sentite di sobbarcarvi un immenso peso visivo, con questa fotografia che ti fa entrare violentemente nel mood Società Malata, guardatelo. In mezzo a tanta monnezza, un esercizio di stile così è una grandissima boccata d’aria. Pesante, ma bella.


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13 Reasons Why: il bullismo in America

Con 13 Reasons Why laggente in America sta impazzendo. Sembra quasi che si siano accorti solo ieri del fatto che il periodo del liceo sia LAMORTE. In questo caso, purtroppo, in senso letterale.

Hannah Baker è bellina, di una simpatia forzata che ti fa urlare “anche meno bastava” ad ogni piè sospinto ed è nuova in città. Già dal primo frame è chiaro che la povera ragazza si è suicidata dopo essere stata bullizzata. La colpa, a quanto dice lei, è semplicemente di TUTTI QUANTI.

Proprio per questo, Hannah decide di lasciare a mezzo liceo delle cassette registrate, obviously quando era in vita, per spiegare loro il perché dell’estremo gesto. Cassette che tutti dovranno ascoltare per capire che parte hanno avuto nel suo suicidio. Pare lecito dire che la gravità delle infinite situazioni in cui Hanna si ritrova e che racconta ai suoi compagni è piuttosto soggettiva e dipende molto, moltissimo dalla sensibilità di ognuno di noi.

Io soffro ad ogni scena perché in generale la vita la prendo male, ma molte delle cose che capitano ad Hannah succedono nella realtà, purtroppo, a qualunque ragazza dell’universo mondo. Non importa che indossi il cappellino di lana, le giacche da uomo, i pantaloni a zampa e uno zainetto da scema: qualcuno, prima o poi, le romperà i coglioni.

Proprio per questo del bullismo è NECESSARIO parlare, ora, sempre e per sempre. Ovviamente la seconda stagione è praticamente scontata, visto il successo d’iddio che sta riscuotendo la serie. Sarà contentona Selena Gomez che all’inizio doveva esserne protagonista, in caso il progetto fosse diventato un film, e che si è reinventata produttrice esecutiva una volta che Netflix si è accaparrata i diritti del romanzo da cui è tratto.

Vedetene ed angosciatevene.


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